Il Commento di Marsilio Ficino relativo alla figura del buon filosofo secondo platone
replica delle pag 10v e 11r del cod. Urb lat 185 scritto per Federico da Montefeltro- codice: 698
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- replica delle pag 10v e 11r del cod. Urb lat 185 scritto per Federico da Montefeltro vergato fra il 1477 e il 1482
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Codice di medio formato e dalla pergamena ben lavorata, l'Urb. lat. 185 già ad apertura rende immediatamente visibile la sua appartenenza alla libraria di Federico da Montefeltro, esibendo l’antiporta decorata con il contenuto del libro, dispositivo comune nella collezione urbinate, seppure in questo caso non sia affrontato alla pagina di incipit, come accade altrove. La decorazione si articola, a f. 2v, in un clipeo laureato compreso entro un doppio listello in oro e una fascia rosa, mentre il f. 7r ospita la pagina di incipit. Il testo dei Dialoghi di Platone, tradotti e commentati da Marsilio Ficino (1433-1499), è introdotto da un amplissimo apparato di lettere incipitarie che si sussegue in tutto il codice con le medesime modalità decorative con minimi, ma significativi, scarti: ad esempio a f. 20v, la curva della P di Potestne mihi, all’incipit del Menon seu De virtute, è occupata dall’impresa della Giarrettiera, di cui è stato tuttavia travisato il motto; o a f. 49v, in cui compare, nella D di Deum ne all’incipit dell’Alcibiades secundus De voto, la bombarda rovesciata ed esplodente. Proprio la presenza della Giarrettiera permetterebbe di collocare l’esecuzione dell’apparato decorativo del codice in un momento prossimo al 1474 e non ante quella data (per quest’ultima proposta cfr. Labriola, Repertorio dei miniatori fiorentini, p. 229). In senso opposto, appare invece eccessivamente spostata in avanti la datazione proposta da Paul Oskar Kristeller, vale a dire ai primi anni ’80 (I, p. CL-CLIV, poi ripreso in Peruzzi, Considerazioni sulla biblioteca di Urbino, p. 46), sia per questioni di natura filologica già sottolineate da altri (Megna, Lo Ione platonico, pp. 153 nt. 2, 155, 163) sia per osservazioni relative allo stemma: è infatti verosimile che a una tale altezza cronologica esso dovesse essere ormai caricato del palo e perciò ducale, come in casi analoghi (l’Urb. lat. 328, sottoscritto al 1481, eseguito dal medesimo miniatore dell’Urb. lat. 185, cfr. infra), e non semplicemente inquartato, come invece è di fatto.
Incluso nel catalogo di Stornajolo (Stornajolo, Cod. Urb. lat. 1-500, pp. 185-186), che dava anche una sintetica descrizione dell’apparato decorativo, mentre Annarosa Garzelli lo comprendeva entro la categoria «Bottega e collaboratori di Francesco di Antonio del Chierico» (Garzelli, I miniatori fiorentini di Federico, p. 127), Ada Labriola ha incluso l'Urb. lat. 185 nel corpus dell’anonimo Maestro del Salterio di Federico da Montefeltro (Labriola, Repertorio dei miniatori fiorentini, p. 229). La studiosa individua infatti puntuali elementi di confronto fra il codice ficiniano e l’Urb. lat. 9, più noto come Salterio di Federico da Montefeltro, dal quale l’artista deriva appunto il suo nome convenzionale; in particolare, i punti di tangenza tra i ritratti di Platone nell'Urb. lat. 185 e di David salmista nel salterio trilingue risultano così spiccati che le due immagini «rasentano la sovrapponibilità» (Labriola, Scheda nr. 1, pp. 141-142). Sono possibili ulteriori confronti osservando soprattutto i putti alati e musicanti che si agitano tra i fregi di entrambi i codici: il Maestro conferisce infatti ai suoi genietti un peculiare «incarnato livido» e chiome brune, come si può per esempio vedere anche nell'Urb. lat. 55. Vero è che, come Labriola non manca di sottolineare, «piccole diversità di conduzione formale» nel catalogo di tale artefice – cfr. per es. Urb. lat. 28, Urb. lat. 68, Urb. lat. 328 – sono spie di una pratica comune in quegli anni, seppure non ancora abbastanza indagata, vale a dire l’abitudine alla collaborazione tra botteghe e miniatori, in una osmosi continua basata sulla diffusione dei modelli decorativi, dell’imagerie figurativa, di un certo gusto pittorico e di alcuni stilemi esornativi. Una prassi che potrebbe agevolmente spiegare sia gli scarti linguistici, ai quali si è appena accennato, sia la posizione storiografica di Garzelli – «Bottega e collaboratori di Francesco di Antonio del Chierico». Il magistero di quest’ultimo è stato tale, nella Firenze del secondo Quattrocento (Bollati, Francesco di Antonio del Chierico, pp. 228-232), che molti artisti dovettero formarsi accanto a lui e, a partire dai suoi modi, elaborarono poi un linguaggio autonomo. Uno stilema à la del Chierico è per esempio l’utilizzo di clipei o rombi carichi di frutti, pigne, mazzetti di fiori rigogliosi, risolto nell'Urb. lat. 185 in maniera estremamente raffinata: mentre infatti per gli argumenta di Ficino il miniatore ha realizzato iniziali quasi standardizzate nella loro tipologia decorativa, per quelle che introducono al testo di Platone ha sempre arricchito l’occhiello centrale della lettera di elementi araldici o, appunto, di tondi con frutti, foglie dalle forme particolari, pigne, ghiande, mascheroni e così via. Interessante è inoltre la scelta di disseminare il ms. delle insegne di Federico, invece di concentrarle, come sovente accade, nella pagina di incipit o anche nell’antiporta.
Vergato da un copista a oggi anonimo (de la Mare, New Research, p. 449 nt. 223), l'Urb. lat. 185 testimonia il precoce interesse di Federico da Montefeltro e della corte marchigiana per le teorie neoplatoniche; è infatti a partire dagli anni ’70 del Quattrocento che entrarono nella collezione urbinate esemplari come il Commentario di Macrobio al Somnium Scipionis ciceroniano, Urb. lat. 1140, o appunto i codici ficiniani come gli Urb. lat. 226 e 1249 (Cieri Via, Ipotesi di un percorso funzionale, p. 56; il primo, con lo stemma inquartato e caricato del palo [f. 1r], contiene nei primi 34 fogli la traduzione del Trismegisto, mentre il secondo, datato al 1481 [f. 14r], è privo di qualsiasi qualificazione araldica e non contiene testi platonici).
Summa huius dialogi est, quid sit et quale officium philosophi, definire. Est autem philosophi officium, divina nosse, gubernare humana: in illo contemplativa philosophia, in hoc activa compraehenditur. Philosophus itaque primo divinam, id est, absolutam ipsius boni naturam per sapientiam contemplatur. Deinde ad id bonum velut ad finem humanas operationes dirigens humana gubernat. Haec autem gubernatio duo requirit. Primum, ut quid humana natura sit, et quo pacto ducatur ad bonum, a malo removeatur, cognoscat: quod quidem per prudentiam philosophus agit. Alterum, ut sic instituat hominum et affectus et actus, sic temperet atque cohibeat, ut ad bonum quod sapientia ipsa invenerat, et ad quod prudentia deinde direxerat, facile tendant. Id vero per morales virtutes efficitur, quas omnes uno iustitiae nomine Plato complectitur. Atque ex iis duobus humanorum gubernatio constat. Eiusdem autem est scire recte hominem unum, familiam ac rempublicam gubernare. Quamobrem qui moralis est, idem dominus, civilis, rex ideoneus esset. Ex quibus concluditur in ipso philosophantis officio haec omnia contineri, sapientiam, prudentiam, iustitiam, moralem, domesticam, civilem, ac regiam disciplinam. Per sapientiam divina cognoscit, per prudentiam iustitiamque humana gubernat, dum rem suam, rem familiarem, rempublicam administrat. Eiusmodi est philosophi ipsius officium, quod Plato in libris de Republica latius explicat, in hoc significat brevius. Ac primo duas aliorum opiniones circa philosophi officium confutat. Prima videtur vel Solonus fuisse vel similis alicuius, dicentis id esse quamplurima disceret: secunda Hippiae sophistae volentis philosophiam artium omnium peritiam esse. His denique confutatis, sententiam quam praediximus, breviter innuit. Socrates ergo fingitur haec in scholis Dionysij, qui grammaticae elementa Platoni tradidit, adversus discipulos duos Dionysij disputasse: deinde quae in scholis tractaverat, in corona familiarium suorum a principio recensere.