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Stefano Gelao – Un amanuense nel XXI secolo
“Papà, papà! Ci stanno pennino e calamaio! Voglio pennino e calamaio!”
“Ma Stefano, tu non sai scrivere”
“Papà, ma io invento”
Stefano Gelao aveva quattro anni e mezzo e una passione per le mappe dei pirati, quando, alla festa del patrono, entrò in possesso dei suoi primi strumenti da calligrafo, chiavi fondamentali per entrare in un mondo che avrebbe abbracciato solo dopo un ventennale intermezzo da informatico.
Oggi Stefano è un amanuense, passa ore e ore a vergare parole con le sue penne, lavorando finemente ogni parola, ogni lettera, ogni segno, in gesti che ritornano all’infinito nella costante ricerca della perfezione.
Per scoprire i segreti del suo lavoro, mi sono recato al suo scriptorium, per incontrarlo.
Ma è cercando le ripetizione di un mondo che ritorna, che ho scoperto l’eterogeneità di un intero universo.
Un abito per le migliori occasioni
Pensando a un amanuense ai giorni nostri, sembra ovvio chiedersi quale sia il suo posto in mezzo alle modernità odierne.
“La calligrafia può entrare in qualunque ambiente l’uomo abbia comunicato cose che per lui contano” dice Stefano. “Ciascuno di noi ha delle parole che lo mandano avanti. Averle davanti agli occhi è la responsabilità di non dimenticare quelle parole; tanto che il primo claim del mio scriptorium è stato: Le tue parole contano, vestile bene”.
Ed è proprio questo che si può ammirare scorrendo fra i lavori di Stefano; parole, frasi, interi testi, lunghi e complessi, elegantemente vestiti per l’importanza datagli da chi, a quelle particolari parole, ha dato un senso particolare e, soprattutto, personale.
La parola scritta assume quindi i tratti di un monito per sé stessi, tramutandosi in un mezzo per dare una solennità e una prospettiva che appartiene solamente a determinate categorie di persone.
“Essere pubblicati oggi non è garanzia di eternità, perché la nostra carta, fra due o trecento anni, sarà diventata polvere. Infatti, chi ancora oggi si avvale principalmente di questo tipo di scrittura sono personalità come il Papa o la regina d’Inghilterra, con una diversa prospettiva del tempo e dell’eredità che lasciano a chi verrà dopo di loro, e che per questo continuano a far vergare in questo modo le loro leggi”
Un vero e proprio ritorno a metodi antichi, che sembrano riproporsi ancora oggi, nonostante i mezzi a nostra disposizione, come i più efficaci per ricordare e conservare.
Novelli sposi bramano le proprie promesse scritte indelebilmente; appassionati storici desiderano la riproduzione di antichi testi, da poter ammirare con quella punta d’emozione che proverebbero di fronte all’originale; sognatori innamorati di giovani maghi o di anelli incantati che desiderano mappe di mondi da esplorare con la fantasia; ma anche semplicemente la frase o la pagina di un libro che ha avuto il potere e l’onore di cambiare la vita di una persona; queste sono solo alcune delle richieste che oggi possono pervenire a un amanuense, pezzi di cuore da consacrare all’eternità, che Stefano riproduce con quegli stessi elementi utilizzati secoli fa da quegli scribi di cui ora segue le orme.
La materia, un’eredità millenaria
Gli attrezzi e i materiali necessari alla nascita di una pagina sono innumerevoli e spesso inaspettati; e ancor più affascinante è stato scoprire le lavorazioni impensabili dietro di essi. Dalle penne alla carta, dalla carta ai pigmenti, la preparazione di ognuno è qualcosa che va ben oltre l’aspetto letterario e artistico.
Preparare e costruire una penna da scrittura si può facilmente considerare una vera e propria arte artigiana, per l’abilità richiesta nel taglio della punta e non solo. Non è di secondaria importanza il tipo di pennuto dalla quale la si preleva: tra le più comuni, infatti, troviamo le penne d’oca, prelevate solitamente tra le prime cinque penne dell’ala, le remiganti, notoriamente più robuste per la loro funzione di sostenere il volo, e le cui aste, al tatto, sembrano grosse cannucce di plastica, tagliate e lavorate a seconda dei diversi tipi di scrittura.
“Ciascuna penna ha delle caratteristiche proprie. Il tacchino, ad esempio, ha delle remiganti meravigliose, robuste e flessibili a tal punto che, grazie alla sua introduzione nella storia della scrittura europea, questa è evoluta dalle forme più pesanti, come la gotica o la cancelleresca, alle forme più moderne e più veloci dei corsivi come noi li intendiamo”.
La punta può variare da più sottile, per il disegno, a tronca, per la scrittura calligrafica, modellata con un taglierino o un tagliapenne dopo aver temprato il calamo in sabbia calda ad alta temperatura, così da indurirlo al punto giusto, poiché come spiega Stefano: “Il calamo è fatto della stessa cheratina delle nostre unghie e noi, con il calamo, andiamo a intinzione. Senza la tempratura, se lo lasciassimo troppo a mollo, esattamente come le nostre unghie finirebbe per ammorbidirsi, divenendo simile ad un pennello”
Proprio gli inchiostri sono forse la componente più sorprendente, con ingredienti umili e inaspettati, ma in grado di trasformarsi in qualcosa di pregiato e duraturo che, mescolandosi e reagendo con gli elementi delle pergamene, sono in grado di ottenere vere e proprie reazioni alchemiche, dando così vita ad una magia millenaria.
“E non è un caso,” precisa Stefano. “Se n’erano accorti già gli antichi, perché della pergamena ne parla Plinio il vecchio, che ne racconta le origini: uno dei tolomei fece un embargo di papiro al re di Pergamo che, per aggirare il problema, si inventò in brevissimo tempo questo metodo di usare una pelle animale come supporto scriptorio. Plinio aggiunse inoltre, come nota, che chi poggiava la penna su questo materiale aveva la percezione di lasciare le sue parole nei secoli a venire”.
Ma quali sono questi magici ingredienti? La verità è che molto dipende dalla base di partenza, a seconda del colore da ricavare. Infatti, non esiste una ricetta univoca per un acquerello antico o una tempera antica, ma varia a seconda dei casi, suddividendosi per lo più in gruppi di colore.
La tempera antica si può ottenere mischiando la polvere del materiale da cui deriva il pigmento, con le giuste proporzioni di tuorlo d‘uovo, che funge da colorante e collante; aceto, che Stefano ci racconta sostituire spremendo una foglia di fico, in caso di colori più soggetti a cambiamento, come il lapislazzuli; fiele di bue; miele, per dare plasticità e brillantezza; e acqua.
Elementi semplici, quasi tutti facilmente reperibili in una qualsiasi cucina, utilizzati per realizzare reazioni chimiche specifiche, come quella dell’inchiostro principe delle pergamene medievali, ottenuto con galle di quercia, acqua, solfato di ferro, bucce di chicchi di melograno e vino. In questo caso, il ph acido dell’inchiostro, reagisce con quello basico della pergamena, passata a bagno nel latte di calce, per ammorbidirla prima della lavorazione che la porterà a sembrare, al tatto, simile a un tessuto. “Il risultato è un matrimonio alchemico, in cui nel tentativo di neutralizzare la funzione, la pergamena risucchia l’inchiostro nelle profondità delle fibre, ottenendo uno scritto che può durare sei, sette, ottocento, mille anni o anche di più”.
Stefano, a proposito della questione alchemica, approfondisce inoltre ciò che si trova alla base del processo e della suddivisione nei tre momenti dell’alchimia classica: Nigredo, l’opera al nero, Rubedo, l’opera al rosso e Albedo, l’opera al bianco, in cui la materia che deve portare alla pietra filosofale, rispettivamente marcisce, consolida e sublima.“Ebbene, se si va a prendere “Le nozze alchemiche” di Rosenkreutz, un testo del diciassettesimo secolo, c’è una meravigliosa illustrazione di Ermes che si sposa con una donna con il simbolo dello zolfo. Se si cuoce insieme il sale di mercurio, il cinabro, quindi Ermes, con lo zolfo, si ottiene il vermiglione medievale; e quindi la fase Rubedo è descritta alchemicamente come il vero e proprio procedimento per ottenere il vermiglione”.
Tra i materiali che Stefano mi mostra vi sono anche alcune piccole preziosità del caso, come un frammento di lapislazzuli, utilizzato per l’incredibile stabilità del blu che ne deriva e che, a seconda del grado di purezza, può arrivare a valere più dell’oro; o una Terra di Siena molto particolare, la stessa che Lorenzo De Medici dava a personalità come Leonardo o Michelangelo. A renderla particolarmente preziosa, nonostante l’umiltà del materiale, è che salvo la zolla in mano al fornitore, la vena dei De Medici da cui proviene è esaurita.
Tra tutti i vari e possibili materiali utilizzati per scrivere esattamente come facevano gli amanuensi medievali, ve ne sono, però, anche di curiosi, come ad esempio il sangue.
“Mi sono trovato a sapere che il sangue su pergamena di pelle può durare quattrocento anni” racconta Stefano. “Ho letto la storia di una tale Marta, una ragazza sedicenne, vissuta a San Daniele di Friuli nel 1602, figlia di un proprietario terriero e una delle poche in grado di leggere e scrivere fluentemente. Si mise a scrivere il vangelo apocrifo secondo Marta. La Chiesa dell’epoca non la prese benissimo: essendo figlia di un proprietario terriero, non ci fu nessuno scandalo e nessun processo, ma la Chiesa le vietò di leggere e scrivere per il resto dei suoi giorni. Lei la prese così male che, trovato un diario in pergamena di pelle, si tagliò le vene e scrisse le sue disgrazie fino a morirne. Questo diario è ancora conservato alla Biblioteca Guarneriana di San Daniele di Friuli”
Nel mostrarmi pietre, polveri, penne e pergamene, Stefano ha gli occhi illuminati di chi vive tutto, non solo con il profondo amore dell’appassionato, ma anche di chi possiede la consapevolezza di cosa significhi davvero lavorare con quei materiali, dell’importanza e del valore di riproporli oggi, prendendo su di sé un‘eredità antica di mille anni che lui stesso definisce in modo magico e romantico.
“Pensare di utilizzare i loro materiali, ripercorrere un gesto antico, un solco che è lo stesso delle pitture rupestri, e che ha unito poi storicamente lo scriba egiziano, lo scriba romano inventore del ferro gallico, lo scriba medievale… è come sentire una catena di mani appoggiate sulle spalle”.
Un immaginario poetico, un lascito millenario che guida la mano di Stefano nelle precise riproduzioni di opere che, senza quei materiali, oggi probabilmente non potremmo ammirare.
La ripetizione alla ricerca della perfezione
“Tria digita scribunt, totum corpus laborat”
Stefano descrive con queste poche parole, provenienti da un frammento beneventano dell’ottavo secolo, proprio quel gesto alla base di tutto.
Scrivere a mano è per chiunque un ricordo quasi lontano, legato spesso agli anni di scuola e a poche altre situazioni, una pratica lasciata indietro in favore del digitare a ripetizione i nostri pensieri su un più comodo computer; e anche quando ci capita di prendere in mano una penna e prendere qualche appunto, la nostra resistenza può a volte risentirne molto in fretta.
Per un amanuense, tutto si moltiplica in potenza. La ripetizione di un gesto non richiede semplicemente costanza e concentrazione. Ogni lettera dev’essere vergata con precisione in dimensioni e forma, proprio per quel senso di bellezza d’abito da far indossare alle parole che per noi contano maggiormente. Ogni movimento è dettato da un ritmo preciso, che va mantenuto per molte ore, per dare omogeneità e evitare possibili imperfezioni.
La riproduzione di un testo, per un amanuense come Stefano, è la continua ricerca della perfezione all’interno della costante ripetizione di lettere e parole.
Basti pensare che le stesse penne da scrittura, in epoca medievale, subivano particolari modifiche proprio a questo scopo: la punta posteriore veniva spezzata, per evitare che potesse finire negli occhi degli amanuensi, scrivendo loro su piani inclinati, mentre l’intero vessillo veniva tolto, poiché essendo la remigante funzionale al volo dell’uccello, il minimo spiffero avrebbe potuto inficiare il movimento e modificarne il tratto.
“I primi capitoli dei libri di calligrafia, di solito, iniziano con esercizi di postura e posizione sulla sedia, per poter mantenere un gesto il più rilassato e naturale possibile, così da poter scrivere per più tempo” spiega Stefano, il quale mi dà anche una splendida e breve dimostrazione, preparando una tempera nera con alla base un pigmento ottenuto da semplice fuliggine, e vergando una parola su carta pecora di fronte a me.
Ad accompagnare il suo lavoro c’è un religioso silenzio. Non posso che ammirare la mano esercitare una pressione non esagerata, ma decisa, più di quanto potessi immaginare; la penna viene bagnata sulla punta con un pennello intinto nella tempera, per avere il maggior controllo possibile sulla quantità d’inchiostro utilizzata, per poi lasciare dietro di sé un tratto nero che, al solo pensiero della sua natura secolare, fa venire i brividi.
Una vera e propria magia, che risulta nel suo gesto, ancor più impressionante per una sua specifica caratteristica: Stefano è mancino. Per aggirare il problema di una mano sinistra, che avrebbe quindi sbavato l’inchiostro scrivendo, ha trovato un diverso modus operandi, capovolgendo il proprio mondo a testa in giù e imparando a scrivere sottosopra, di modo da ottenere una scrittura che andasse da destra verso sinistra e che ritrovasse la sua forma standard una volta girato il foglio.
“Volendo essere più tecnici, il nostro alfabeto si basa su delle corrispondenze speculari tali, per cui il discorso risulta meno complesso di come possa sembrare in prima istanza. Una “q” capovolta è una “b”, la “p” è speculare della “d” e così via. Di conseguenza, mi basta avere in mente una tabella delle corrispondenze; e anzi, anche se un po’ più lento, è un aiuto. Per evitare imperfezioni e scrivere davvero bene, non bisogna nemmeno considerare la lettera, ma tutti i moduli costitutivi che la compongono. Se, come me, sei costretto a pensare ai singoli moduli, non rischi di pensare alla parola come un’entità unitaria, cosa che altrimenti porterebbe a rischiare di essere meno preciso. A questo proposito, uno dei paradossi che più mi piace raccontare è: ciascun tratto della pergamena è il più importante”.
Scrivere un’intera pergamena non è più quindi solo la ripetizione di lettere, scritte e riscritte all’infinito per mettere nero su bianco parole e testi, ma addirittura la riproduzione di migliaia di singoli tratti, curve, ascendenti e discendenti, che vanno a costituire un vero e proprio inseguimento del gesto perfetto, in un eterno ritorno che per un’amanuense diventa il cuore pulsante del suo lavoro, tanto che Stefano dice: “Riproduco magari anche centomila volte un modulo all’interno della stessa pergamena. Vedo la pagina svilupparsi, cambiare da bianca a nera, e so che ogni tratto di quel nero è stata la mia ricerca continua e ossessiva della perfezione. C’è? Mai. Conto di raggiungerla? No. Smetterò di inseguirla? Neanche per sogno. Perché è questo il cuore del viaggio”.
Un’eterna sfida alla ricerca della riproduzione perfetta, in cui, come dice Stefano si sprecano le imprecazioni a Titivullo, demone incaricato da Lucifero di raccogliere nella gerla sulla propria schiena, gli errori degli amanuensi e le ciarle delle donne, favorendone l’una e l’altra, al fine di portare sempre un sacco di materiale al suo signore. Una passione vissuta tra mille difficoltà, come dover scrivere in caratteri particolarmente piccoli o dosare e gestire la quantità d’inchiostro, senza dimenticare quella mano sinistra che però, in alcuni casi, è divenuta anche un vantaggio, come nella riproduzione delle Leonardesche, scritte specchiate in quanto lo stesso Leonardo Da Vinci era mancino.
“Siamo pochissime mani al mondo a riprodurre le Leonardesche, tanto che per non perdere l’abitudine, a volte, scrivo specchiata anche la lista della spesa”
Gli scritti originali di Leonardo hanno, d’altronde, un carattere minuscolo, che Stefano ammette di non essere ancora riuscito a riprodurre in dimensione.
“E non è tutto, perché c’è un’altra cosa assurda degli scritti di Leonardo. Scrivendo con uno strumento a intinzione, non appena si appoggia la penna, si ha la goccia più piena, che andrà scaricandosi d’inchiostro man mano che si scrive, rendendo il colore più tenue” dice, interrompendosi e agitando un dito. “Non in Leonardo, però. Tutta la scritta Leonardesca, fatto salvo per le firme, tende ad avere lo stesso livello d’inchiostro, come se non avesse usato degli strumenti a intinzione, ma una stilografica con l’erogazione sempre costante. Io, quando lo riproduco in penna d’oca, per cercare di imitarlo vado a intingere lo strumento ogni due o tre gesti, che nel suo caso sono micrometrici, per poter mantenere il tratto ben nero”.
E tuttavia, parlando di queste difficoltà, Stefano sfoggia un sorriso di ammirazione verso quell’abilità antica; un’ammirazione che lo condurrà sicuramente a tentare di riprodurre una mano, che oggi, pare quasi inarrivabile e che potrebbe non ripetersi mai più.
Ma chissà, forse un giorno, anche Leonardo vivrà il suo eterno ritorno, forse proprio per mano di Stefano.
Noi, di certo, glielo auguriamo.
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Scritto a mano
Credits Foto in copertina: Maria Antonietta Guerra