il Sole 24 Ore

Caro  Mastru, ti scrivo dalla tastiera del mio computer, mentre le mie mani schiacciano dei quadratini che corrispondono alle lettere delle parole che ho nella testa (o almeno così credo). Vedo comporsi le parole su un foglio illuminato che se ne sta appeso dritto di fronte a me. Scrivere, trascrivere, tradurre il pensiero in parole e dare la possibilità alla nostra testa di dialogare con la testa degli altri. Ti invito a riflettere su questa condizione. A me, ha dato la possibilità di rifletterci questa storia che ti presento oggi. Lui si chiama Stefano Gelao ed è un amanuense. Ho avuto la fortuna di incrociare la sua storia tra le mille storie che abbiamo ascoltato e letto durante la magica Notte del #LavoroNarrato di qualche giorno fa. Si, dopo aver visto questo video, ho avuto voglia di prendere la penna in mano e di scrivere, sforzandomi, come dice Stefano nel video qui sotto, di provare a “vestire bene le parole”.

 

Ho chiesto un po’ di cose a Stefano:

J: Mi spiegheresti meglio il concetto di “Vestire bene le parole?”

S: Viene dal “claim” dello Scriptorium “Le tue parole contano. Vestile bene”. La parola scritta è un insieme di sostanza e forma (Platone definiva la scrittura come “la geometria dell’anima che si manifesta fisicamente”) “Vestire bene” una parola è darle una bella forma. Ritengo che questa non sia “solo” una questione estetica, è anche una questione di “rispetto” per chi ne fruisce: una parola ben vestita è leggibile, oltre che piacevole. Una parola malvestita spesso è irriconoscibile per la stessa mano che l’ha scritta.

J: Prima informatico e poi amanuense, mi racconti un po’ questo passaggio?

S: Credo che il lavoro dell’amanuense e quello del programmatore siano invero assai simili, per quanto questo possa sembrare paradossale:
– entrambe le professioni hanno a che fare anzitutto con la scrittura e con il linguaggio. Ogni parola scritta è fondamentale ed un solo errore può inficiare tutto il lavoro.
– entrambe le professioni sono svolte seduti davanti alla postazione di lavoro, sono poco comprese dai non addetti ai lavori ed affievoliscono la luce negli occhi, e fanno dolere la schiena (c’è un brano tratto da un manoscritto cassinese dell’VIII secolo famoso nel mio settore che parla dell’amanuense, ma potrebbe perfettamente essere riferito anche ad un programmatore moderno: “Quelli che non sanno scrivere, pensano che ciò non sia un lavoro: ma coloro che hanno gli occhi in tensione e il capo chino [sanno che] tre dita scrivono, ma tutto il corpo lavora!”)
– entrambi fanno “magia” con la parola (l’amanuense trasforma la parola in bellezza, il programmatore trasforma le righe di codice in altri risultati)
– lo stesso scriptorium medievale aveva plausibilmente un’atmosfera assai simile alla sala sviluppo della software house in cui lavoravo, con diversi programmatori seduti in silenzio al tavolo con le dita operose dalla mattina fino al calare del sole. Io son passato dall’uno all’altro per tanti motivi:
– un amore smisurato per la storia che non riuscivo ad esprimere nel mio lavoro precedente
– la necessità di combattere quel momento storico in cui mi sembrava ci fosse una vera e propria guerra ai beni culturali (all’estero c’erano gli uomini in nero dell’Isis che facevano saltare in aria Palmira, in casa avevamo Pompei che cadeva a pezzi)
– la voglia di crescere in una professione analogica (le professioni digitali hanno uno svantaggio: diventi bravo, poi cambiano i protocolli e ti ritrovi se non proprio ai piedi del colle, almeno con la necessità di riprendere in mano cose che già avevi studiato, in una professione analogica invece, più studio, più mi esercito e più divento bravo. Punto)
– volevo operare nell’ambito della bellezza invece che in quello dell’efficienza.
Perché l’efficienza omologa, “la bellezza è lo splendore del vero” (cit. pseudo-platonica) e può salvare la vita, o almeno ha salvato la mia da un grigiore che mi stava inghiottendo.

J: Quanto pensi sia importante insegnare a scrivere ai bambini?

S: Insegnare la scrittura a mano ai bambini è importante, e non lo penso io, ma eminenti dottori con specializzazioni in neurologia e psicologia. Esperimenti hanno dimostrato che la scrittura a mano, in particolar modo quella corsiva, attivano l’area di Broca (zona del cervello deputata fra le altre cose all’elaborazione del linguaggio) molto di più della scrittura digitale, favorendo così la memorizzazione e l’organizzazione dei concetti che si vanno a fissare su carta. Oltre a questo la scrittura a mano aiuta molto il padroneggiare del movimento sottile e della coordinazione occhio mano. Ciascuna di queste due cose basterebbe da sola a rendere fondamentale l’apprendimento della scrittura a mano.

J: Sto riflettendo sul perché ha senso quello che fai, mi aiuteresti a capirlo meglio?

S: l’importanza generica della scrittura a mano è secondo me questa: “Ciò che lasci scritto su carta rimane nel tempo. Ciò che scrivi digitalmente… chissà?” Ti faccio un esempio: Ho su qualche vecchio floppy da 5 pollici e un quarto alcuni racconti che scrivevo da piccolo. Oggi non ho più un driver da 5 pollici e un quarto con cui poter leggere quei floppy disk, ma con un po’ di fatica potrei probabilmente trovarlo da qualche parte. Ma fra cinquant’anni? Fra cento? E fra cinquecento anni? Aggiungiamo a questo che gli hard disk magnetici possono essere cancellati da forti tempeste solari. Ne basterebbe una sufficientemente forte e lunga 24 ore per causare enormi problemi a tutti gli hard disk del globo. La carta non ha bisogno di elettricità, devices, attacchi o supporti particolari per essere letta. Bastano gli occhi.

L’importante lavoro di stefano non è solo una splendida pratica che conserva la memoria della scrittura fatta a mano. Stefano getta anche semi di innovazione. Perché saremo uomini e donne migliori se riusciremo a coltivare anche la nostra capacità di vestire le parole, a mano, nel mondo degli atomi. Dovremmo incentivare, al fianco dell’educazione digitale, l’educazione alla scrittura analogica, coltivare la calligrafia, sporcare i fogli, scrivere e allenarci ad accettare la condizione delle parole e della loro presenza nel mondo analogico.

Grazie Stefano, il tuo lavoro, quello della tua bottega, Crea, Racconta e Ricrea l’Italia e il Mondo intero.